Roberto Pruzzo, il bomber che amava la pioggia: 70 anni di gol, silenzio e cuore giallorosso

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"Ci sono centravanti che vivono per il rumore. Applausi, cori, microfoni. E poi c’è chi, come Roberto Pruzzo, segna nell’acqua, nel fango, nel silenzio. E ogni gol è una stretta di mano tra il cuore e il destino."

Roma, anni Ottanta. Una città che si sveglia con l’odore dei sampietrini bagnati e le edicole che parlano di calcio più dei bar. Nella Capitale, a quell'epoca, quando si diceva “bomber”, non c’erano dubbi. Era lui. Roberto Pruzzo. Genovese di nascita, ma romano d’adozione, di fede, di destino.

Il numero 9 che non cercava il glamour

Pruzzo non era bello da vedere. Non era elegante. Non era nemmeno particolarmente simpatico ai fotografi. Ma aveva una dote che non si insegna: capiva prima dove sarebbe finito il pallone. Era un centravanti d’altri tempi, ma anche di nessun tempo. Di quelli che vivono d’istinto, di botte col centrale avversario, di colpi di testa sotto la pioggia di Perugia o Bologna, ma anche di rovesciate al Comunale contro la Juventus, in quella rivalità tutta Anni Ottanta divenuta antologia del nostro campionato.

Con la maglia della Roma ha segnato tutto quello che poteva segnare. 138 gol ufficiali. 5 volte capocannoniere della squadra. Tre volte re della Serie A. Ma soprattutto, un simbolo in silenzio. Mai sopra le righe. Mai una parola di troppo. Mai una richiesta. Solo sudore, area di rigore e quella faccia da operaio del gol.

Lo scudetto del 1983 il suo capolavoro, la finale di Coppa Campioni il suo rimpianto

E poi c’è l’83. Lo scudetto. Quello di Liedholm, di Falcao, di Conti. Ma anche di Pruzzo. Perché in quell’anno lui non solo segna 12 reti, ma fa quel lavoro sporco che pochi notano: spalle alla porta, sportellate, appoggi, diagonali. È l’uomo che apre gli spazi. Che attira le botte per far volare gli altri. Un eroe silenzioso nel caos della gloria. Non è un caso che quando a Roma si festeggia quel tricolore, i tifosi più veri non dimenticano mai il baffo. Perché sanno. Perché l’hanno visto. Perché Pruzzo, anche senza alzare mai la voce, ha urlato per anni con i suoi gol.

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Anche in quella notte maledetta del 30 maggio 1984, in finale di Coppa Campioni contro il Liverpool, Pruzzo mise la sua firma. Prima di uscire per infortunio aveva rimesso in carreggiata la Roma all'Olimpico con un colpo di testa dei suoi, fulminando Grobbelaar con un torsione figlia di un tempismo innato, che compensava il suo deficit di altezza rispetto a difensori avversari alti come corazzieri.

Purtroppo il suo gol non bastò a quella Roma mitologica per arrivare sul tetto d'Europa. Il rimpianto nel pensare a cosa sarebbe potuto accadere con il Bomber in campo per tutti i 90 minuti, nella memoria dei tifosi che vissero quella notte è pari, o forse più forte dell'ammutinamento di Falcao nel tirare i rigori. Ma questa è un altra storia, che fa male.

Finale di carriera e eterno ritorno

Dopo Roma, un passaggio alla Fiorentina. Ma il cuore rimane lì, sotto la Curva Sud dove amava volare dopo ogni gol segnato all'Olimpico. Negli anni successivi diventa allenatore, opinionista, volto televisivo. Ma mai personaggio. Non cerca luci. Non insegue i riflettori. Resta fedele alla sua natura: concreta, schiva, romantica. Oggi compie 70 anni. E se passi davanti a Trigoria o dentro a una trattoria romanista, c’è ancora chi lo ricorda come il centravanti perfetto. Non perché era spettacolare. Ma perché era necessario.

"Roberto Pruzzo non ha mai cercato la gloria. E forse è per questo che la gloria ha trovato lui. In silenzio, come una carezza dietro la nuca. Come un cross sbagliato che diventa gol. Come la Roma di quegli anni: unica, irripetibile, vera."